III - Il campeggio cicogna

09/07/2023
Da: I racconti di Turda

Il campeggio Cicogna

continuazione del diario del 29 agosto…               In questi giorni mi colpiscono con prepotenza gli odori dell'aria e della terra. Di quando in quando, mi ritorna alla mente un vecchio campeggio che chiamavamo cicogna. Ronza nelle mie effimere memorie, mentre solo fino a poco tempo fa, invece, sognavo la Svizzera. Per più di due anni l'avevo sognata: mi svegliavo di notte in mezzo alle immagini della città di Losanna e del lago Lemano, come se le avessi stampate in fronte in modo fisico, materiale, vischioso. Ricordi di passeggiate diurne si affastellavano, uno dopo l'altro; panchine nei parchi vicine alla casa di Mariella. Momenti trascorsi in religiosa solitudine. Sedutovi sopra, su quelle panchine, osservavo una breccia d'aria luminosa, tra i condomini residenziali, ritti, sul digradare di una dolce collina (una breccia di cielo che un tempo era stata vera, e che ora poteva rivivere nel mio sogno). La collina, la breccia, la panchina, mi trasmettevano una piacevole sensazione di pace. Però istillavano anche la percezione di un'imminenza: un'imminenza di qualcosa di indefinito. Qualcosa che aveva a che fare col sole. Col caldo. Come se il tempo fosse stato fermato dal caldo. Poi la Svizzera di Mariella ha ceduto il passo al mare: all'estate Una cosa che avviene sempre, nei sogni; tanto è vero che torno indietro negli anni un po' di più, rispetto al Lago Lemano, questa volta con l'odore della battigia nelle narici, un cappellino azzurro, un vecchio sole, la testa rotonda e mio padre e mio zio con la pelle scura, e i costumi a slip tanto di moda in quei tempi nostalgici. Padre e zio trafficano tutt'e due intorno a un canotto. Il primo con in viso il suo sorrisino furbetto. Il secondo, invece, talmente scuro di carnagione da non riuscirsene quasi più a distinguere i lineamenti. Infine mia cugina, con la radio rossa che soleva tenere sul tavolo della cucina romana, e che ora aveva portato con sé al mare. Mia cugina: quella che mi dice di non aver voglia di far niente, e che io non riuscivo proprio a capire, perché invece io ho sempre voglia di far qualcosa, non importa quanto stancante possa essere.

Ho quasi l'impressione di trovarmi, in qualche modo, in due luoghi diversi nello stesso momento: con mia cugina nella roulotte, a poca distanza dalla battigia e dal gommone (anche se non proprio vicinissimi), e allo stesso tempo là, di fronte alla riva del mare. Mia cugina, con la radio mangianastri rossa della cucina romana vicino, continua a voler non far niente; e io continuo a non capirla, perché vorrei essere già grande (com'ero diverso allora!) e fare tutte quelle cose che ai grandi sono permesse.

[Improvvisamente un forte rumore si sovrappone ai pensieri di Duarte. Le pagine del 29 agosto si avvicinano alla fine]

Se non avesse cominciato a librarsi nell'aria il battito delle campane di un campanaro distratto, avrei potuto rimanere a lungo tra i miei eterei memoire. Felicemente. Tra il faro di Cabo de São Vicente che dà l'impressione di spiccare al posto delle pietre assolate del museo di storia di Turda; oppure, magari, accanto ai palazzi settecenteschi di viale Regina Margherita a Roma: di fronte al liceo Righi che si confonde con l'ungherese Yozcla Mizçlos. Qui; là; in mezzo a tutto.

[Non ci sono altri appunti sul 29 agosto. Duarte proseguirà il diario solo due giorni dopo.

Interessante è che, appena approdato in terra straniera, Duarte abbia speso le sue prime parole proprio attorno alla famiglia. La coscienza delle sue radici è evidentemente talmente profonda da non permettergli di soprassedere sull'argomento, neanche dai primi inizi. Dopotutto questa è cosa che succede a molti, ma nel caso di Duarte, dopo attenta analisi, abbiamo notato come si aggiunga un velo di rapporto conflittuale, da qualche parte nei suoi racconti. Duarte, novello Catullo, si sofferma a citare tutti i suoi parenti: madre, padre, zio, e cugina. E poi, se ne dimentica d'improvviso.]