V - Il giardino
da: I racconti di Turda

Il giardino
Nel giardino di Papion Duarte fantastica.
Si sente a suo agio. La sua mente vola libera. Sarà così anche in futuro. Ogni
volta che Duarte si siederà nel giardino, sarà per lui come attraversare una di
quelle porte lattiginose, varchi verso dimensioni nascoste della nostra
esistenza. Un po' poetico detto così, ma in effetti è probabilmente quello che
succede nella testa di Duarte. Almeno, dopo un'attenta analisi dei suoi
scritti. Nel testo che segue, per esempio, le strade di Turda (qui addirittura
Duarte non è nemmeno arrivato al giardino) evocano al nostro alcune letture
matematiche, dalle quali egli quasi riesce a fare un discorso poetico (se ciò è
mai possibile). Poi, da un primo argomento di musica ne raggiunge un altro di cinema,
finché l'amenità di alcuni mobili disposti all'aperto non gli evocherà gli
abitanti del Portogallo. Scopriamo quasi di sfuggita che Duarte si trova nel giardino
con la sua compagna (ne apprendiamo qui, per la prima volta, l'esistenza). Ella
gli racconterà un sogno. Nell'atmosfera del giardino, si vedrà che un sogno
sembra più che appropriato.
Infine il caffè, per un motivo o per l'altro, ritornerà in mille delle memorie Duartiane, quasi immancabile; e nel prosieguo della storia sarà impossibile non notarlo.
Dal diario di Duarte - 7 settembre (forse)
Più cammino per le strade di Turda, in questo mattino soleggiato, più l'odore dell'aria somiglia a quella del Campeggio Cicogna. Precisamente, all'aria di una via in particolare, dove uscivamo tutti insieme a sera, diretti a mangiare la pizza. Un'aria fatta di iodio, di vapore acqueo levatosi dalle piante, d'odore di fiume, che solo poco più in là si gettava nel mare.
Non era solo odore di sera: era anche, al tempo stesso, odore di primo mattino, paradossalmente; quando ancora non c'era nessuno per le vie del campeggio. Odore di strada che porta al mare, transita lungo il dorso dei pini, coperta di ghiaiottolino; poi pavimentata. Una monofila di pini s'apriva come un immenso, dilatato portale, all'ingresso della dimensione marina. I pini cambiavano il paesaggio: pini dalle corsie delle roulottes agli scogli, fino ai frangionde, questi disposti in una sagoma irregolare e sinuosa, come a seguire il profilo del bagnasciuga. Sono quei profili che si vedono nelle foto aree delle spiagge di qualche isola lontana, nei manifesti pubblicitari, nelle schermate di accensione dei personal computer, in cui a volte si nota campeggiare soltanto una palma isolata. Tra cielo, mare, sabbia, la curva sinuosa del bagnasciuga è una sinusoide irregolare, spiraleggiante, adagiata su un piano Cartesiano. I matematici inventano nomi buffi: superfici sospese nello spazio di quei piani Cartesiani che somigliano a lenzuola di un letto, e che appunto loro chiamano lenzuoloidi. I fisici inventano nomi buffi: scoprono particelle subatomiche e gli danno il nome di un formaggio. Ognuno di noi può vedere un "lenzuoloide", se vuole: basta avere un calcolatore, installare un programma chiamato 'Mathematica'; seguirne le istruzioni. 'Mathematica' (nome anglosassone) ci mostra il lenzuoloide solcato da una rete di griglie di riferimento. Vanno di moda, le griglie di riferimento. Sono utili come reti da pesca: quelle che si guardano quando tentiamo di capire cos'è un ponte di Einstein-Rosen, cioè una cosa disegnata in mezzo a una selva di altre figure, tutte tese a rappresentare le visioni di Sir Arthur Eddington, di come dovrebbe essere un buco nero (oggetto astronomico oscuro, massiccio, inesplorato, pericoloso). Tutto questo complesso di cose assume la forma di un lenzuolo nero. Poi, al centro, vi si posa una palla. Dove preme il peso della palla, si forma una buca, una fossa nel lenzuolo, come un cappello rovesciato, ideato da qualche moderno stilista. La rete da pesca (linee di contorno bianche) si deforma per ospitare il nuovo venuto (palla, buco, orizzonte degli eventi).
Qui a casa Raţiu, da qualche minuto hanno messo su una musica soft: latino americana; cubana direi. Mi ricorda un film in cui donne uruguayane attraversavano una strada assolata di polvere bianca, in un quartiere povero; popolare. A dire la verità non so neanche se lo vidi mai davvero, quel film: chissà che non fosse stato solo una pubblicità, uno spot o un'anteprima di un nuovo film anzi, visionato sulle poltrone del primo cinema italiano degli inizi del '900: il cinema Arsenale di Pisa, insieme alla mia compagna di allora, nei giorni in cui andavo avanti e indietro nei corridoi del cinema, in su e in giù, dando spesse occhiate alla locandina di questo film, con la voglia di vederlo: lo stesso proponimento per un paio di mesi. Forse lo vidi. Forse non fu mai realizzato. Certo, la strada sudamericana assolata, bianca, potrebbe riferirsi anche a Puerto Escondido, popolata da un pensoso Abatantuono, e da un baffuto poliziotto imbruttito dalla vita, poi trasformatosi in criminale redento, poi in cuoco innamorato. O ancora, potrebbe essere strada dell'isola di Minorca, dove non sono mai stato; o fantasia di una delle 'storie pazzesche' del funambolico film patrocinato da Almodovar. Storie tra cui appare anche una madre, e suo figlio ribelle, disagiato, disadattato. Potrei cercare tra il sottile fascio di fogli A4 dove conservo le recensioni delle pellicole viste al cinema Arsenale, nel tentativo di capire "cos'era" quella strada. Potrei persino riuscire a trovare davvero qualche spunto. Ma non lo farò, perché le strade bianche dove succedono piccole cose ad attori spagnoli o arabi sono sempre uguali. Omar Sharif, nei panni di 'Monsieur Ibrahim' del film sui fiori del corano, avrebbe fatto una egregia figura nel raccontare questa storia. Wim Wenders anche, sarebbe caduto a pennello come narratore, nel corso suo viaggio a Lisbona.
Il caffè che servono a casa Raţiu è marca Segafredo. Le tazzine sono rosse e bianche. C'è scritto sopra "caffè senza", forse perché è una parure di tazzine abbinate, associate al decaffeinato, uno dei cavalli di battagli di Segafredo. Tutto il mondo è caffè: dalla Tazza d'oro al Pantheon, alle bettole di Lisboa. La storia del caffè accompagna molti ricordi, come tacche sul centimetro di una sarta.
Due Raţiu si guardano, l'uno con l'altro: sopra uno dei due un piccione e qualche tralcio d'uva; attorno all'altro un gazebo, scalini di cotto, fronde di alberi che fanno ombra. La voce di una cantante si leva leggera dal ruscello vicino. Una cuoca parla, dalla cucina poco distante. Un gatto e un cane dialogano. L'acqua della cucina scorre dai rubinetti. Un lavoratore fuori le mura della proprietà mette in funzione il suo trapano. Poi si ferma, i piccioni sbattono le ali, altri piccoli uccelli cinguettano in lontananza. La giornata si divide a metà tra il sole e la pioggia. Infine la voce della cantante si ode nuovamente, chiara, provenire dal corso d'acqua. Mi volto a destra e c'è una cassapanca decorata con motivi floreali, verdi e rossi, stile che sembra cinese, ma è uguale anche a quello che ho visto in Portogallo: fiori verdi e rossi disegnati sulla scatola lignea dell'organo nel Duomo di Faro; e su un paravento del lontano Oriente, durante l'epopea delle spedizioni commerciali dell'Impero Portoghese, quando nel 1400 costeggiavano Macão, e i Cinesi dipingevano la venuta di quegli stranieri su questi paraventi, per immortalare il grande evento. Tutto a metà strada tra Lisbona e Cascais, nel museo nazionale di arte portoghese: il più bel museo che chiunque potrà mai vedere.
Mi dicono 'Cafè senza'. Ma senza che? ("Se c'è Dio, c'è anche per me, allora!" dice mio zio in risposta a chi lo chiama 'senza Dio'.) Ho davanti una tazzina bianca 'Segafredo Zanetti'; normale. La mia compagna ne ha una rossa invece: 'cafè senza'. Mi racconta di un nuovo monopattino volante di cui ha sognato davanti a un vicolo immaginario: un monopattino con un palloncino che si librava nell'aria. Mentre era alla guida, si ritrovava implicata in una losca faccenda: un complotto sul coronavirus; roba che aveva a che fare con la Food & Drug Administration americana, e con un misterioso componente grasso-oleoso, responsabile di molti decessi dovuti a una medicina sbagliata. Tra le sue accusatrici (nel sogno) c'è Pamela, la proprietaria inglese del cafè Raţiu, moglie del membro dell'onorevole famiglia (adesso lo ho chiamato "cafè Raţiu", ma è ancora il caffè del giardino dove siamo seduti).
Uno stridio improvviso che sembra quello di un maiale sgozzato ci ridesta dalle fantasticherie. È un pavone azzurro che gironzola attorno alle statue commemorative di Raţiu (ma di quale Raţiu stiamo parlando? Di quale Raţiu il giardino porta il nome? Ion o Ioan? O di chi altro?). Guardiamo il muro di fronte, alla luce del sole che sbuca or ora dalla sagoma dell'alto muro di cinta, e illumina i nostri piccoli tavolini lignei come fossero tavoli da campeggio. Guardiamo i disegni simbolici, stilizzati, di chi con lo stile di un adulto-bambino ha voluto connotare l'uscita della Romania dal comunismo: la sua entrata in Europa. Tutto con qualche tratto di carboncino nero. C'è anche il pavone, là disegnato. Ci sono gli uomini europei con i palloncini e le nuvolette dei loro pensieri, e le stelline più piccole dell'Europa, che rappresentano i Balcani; e un "mic": che è un piccolo spiedino di carne del periodo comunista, aspirante a diventare un grande Big Mac.
Non passa molto, ed ecco che il pavone è già su Instagram. Dice la cuoca, passando con un secchio d'acqua e la mascherina calata sul collo, che alla pavona non piace suo marito: che se ne va in giro sempre; troppo; in cerca di novità.