IX - La nonna di Duarte
Nelle pagine che seguono non sarà possibile capire dove si trovi Duarte mentre scrive. Supponiamo che, qualora non detto, qualora non vi sia nessun riferimento al luogo del momento, Duarte si trovi nel giardino di Raţiu. Supponiamo che il giardino di Raţiu sia il teatro della scrittura per antonomasia.
Duarte per noi è come un pendolo: una bacchetta che oscilla tra ricordi e opinioni. Un giorno ricordi; l'altro opinioni. E così via. E oggi è il giorno dei ricordi: e così apprendiamo qualcosa di più su quella nonna a cui Duarte già pensava quando tempo fa era al parco giochi.
Dunque è vero: ogni essere umano ha nella mente un insieme di elementi ricorrenti. Essi vi ritornano ciclicamente. Lui non se ne accorge, ma ciò che ha lasciato un'impronta sul suo tessuto emozionale (sul suo sub-cosciente), gli si riaffaccia in una sequenza casuale di giorni. Pensiamo di essere liberi ma non siamo altro che macchine: macchine che ripetono il loro programma incessantemente. Duarte pensa di essere libero, e invece non fa altro che ripetere il programma dei suoi ricordi. Non facciamocene un cruccio comunque: non siamo male come macchine.
Dal diario di Duarte – 27 settembre
Ho visto delle piume di pavone.
Erano in un vaso: in casa di Andrei e Mara. Erano blu e verdi. Osservandole sporgere, per un attimo ho pensato che fossero del Pavone di Papion. Ma certo è impossibile.
Davanti a casa di Andrei Lina è scesa dalla macchina. Ha aperto lo sportello con gran decisione, e subito ho pensato che quella scena non mi era affatto nuova. Ho ben vivo il ricordo di uno sportello simile. Un ricordo di tanti anni fa di uno sportello chiuso da mia nonna.
L'auto era una 124 sport. Una Lancia Thema. Una BMW 325ix. E noi eravamo davanti a un ospedale. A una casa di riposo. A una clinica di analisi. A Villa Chigi, nel mezzo di una gita pomeridiana.
Mio padre, in giacca, guardò sornione il gesto impetuoso mosso dalla suocera vero il pezzo della sua auto. Sottovoce, con un risolino abbozzato, commentò con una frase d'uso: "il bulldozer ha chiuso lo sportello…".
"Mamma!! Fai più piano!" tuonò mia madre, che conosceva bene i pensieri del marito, come in una scena inedita di un remake di Tornatore.
Aspettammo in macchina che mia nonna ritornasse dalla clinica. In quelle occasioni mio padre mi insegnava le cose della vita, come faceva tutte le volte che aspettavamo in macchina cercando di non annoiarci. Le sue canzoni e le sue musiche preferite giravano nel mangianastri dell'auto. Ero felice.
Mia nonna era molto intimorita del giudizio di mio padre. Come autentica donna di paese, mi si avvicinava ogni tanto per sussurrarmi "Non dirlo a tuo padre… perché poi dice che so' ignorante…!". Ciò che io non dovevo dire poteva davvero essere qualsiasi cosa.

Quando i miei dovevano fare qualche commissione, a volte mi lasciavano con la nonna, nella casa dietro la ferrovia, e in una di queste occasioni la nonna aveva preparato una torta al limone. "Il ciambellone", lo chiamavamo. A me piaceva tantissimo, ma soprattutto mi piaceva la stanza della sua cucina, piena di mobili bianchi; anche i fornelli e il forno erano bianchi: di ferro smaltato. C'era così tanto spazio, in quella cucina, che io mi mettevo a girare in tondo attorno al tavolo al centro. Una finestra, dal lato opposto dell'uscio, gettava la luce del balcone verso l'interno, attraverso le tendine diafane che decoravano la stanza, irraggiando di bianco ciò che non lo era già. A qualche metro dal grande balcone, il ciambellone giaceva al centro del tavolo spandendo un delicato aroma profumato, coperto solo da un leggero tovagliolo di carta. Ne afferrai un pezzo, preso da irrefrenabile entusiasmo, e con la fetta in mano andai in giro aprendo sportelli a caso, giocando. Uscii in balcone mentre la nonna lavava i piatti, e quando tornai le raccontai della luna. Le dissi che la luna girava intorno alla terra; che la terra girava attorno al sole. "Davvero?" disse la nonna con una 'v' sola. La nonna conosceva solo il modello Tolemaico, dove la Terra era al centro di tutto, e io ero un bambino saccente che iniziava tutti i discorsi con 'lo sai che…'. "Non dire questo a tuo padre" disse lesta. "Sennò dice che so' ignorante!". La sua paura di questo giudizio non scompariva proprio mai.
È vero: aveva creduto fino ad allora all'ipotesi Tolemaica, ma difficilmente questa piccola ingenuità aveva potuto rappresentare qualche problema nella sua vita. Lei era solo spaventata dall'"autorità" di mio padre.
Nel pomeriggio di solito ci mettevamo in salotto. Alle pareti erano appesi i quadri del nonno, che si firmava 'Sinarma', riunendo in una parola sola pezzi diversi del nome e cognome. Il nonno era morto quando io avevo due anni. Un cancro allo stomaco. Un giorno mi sono preso uno dei suoi libri da una credenza di quel salotto. Era un manuale di pittura della fine del Mille Ottocento, della casa editrice Hoepli. Naturalmente lo ho fatto col permesso della nonna, ma comunque è un libro prezioso.
Anche nel salotto c'era una bella luce: tutto aveva una tonalità che dava sul verde, per via del colore delle belle e grandi poltrone che troneggiavano in un angolo, ampie ma discrete. Le finestre, da quel lato della casa, davano su un cortile interno. Una fontana piena di pesci rossi spuntava in un piccolo quadrato circondato da quattro siepi. Una vecchia locomotiva, parcheggiata dietro a tutte le abitazioni dei ferrovieri, sostava sui binari davanti al giardinetto.
Nel salotto della nonna si prendeva sempre il thè con i "biscottini", come li chiamava lei. "Li vuoi i biscottini?" diceva solertemente e premurosamente. E io li volevo sempre.
Al cimitero, quando vidi la terra e la campagna, pensai a mia nonna. Vidi le colline e le lapidi dei genitori di Lina. Sopra, vi echeggiavano i versi di Foscolo. Il pensiero volò a Valchiria, la madre di mio padre. Lei è sepolta a terra, come qui al cimitero in collina di Turda. Nonna Cesonia, invece, la nonna delle torte al limone, riposa a Roma città. Si trova, forse più signorilmente o forse solo più scomodamente, in un fornetto di un edificio di marmo, affollato tutt'intorno da altri fornetti.
Ho pensato a quanto poco mi sia recato a quei cimiteri, a onorare la loro memoria. Ho pensato a quante volte mi sia ripromesso di andarle a trovarle. Ma lontano dalla loro terra, adesso, all'Estero, non riesco a ricordarmi neppure quando sia stata l'ultima volta che qualcuno abbia messo piede al cimitero Flaminio per ricordare nonna Valchiria. Non riesco a ricordare quando sia stata l'ultima volta che qualcuno sia andato al cimitero del Verano per salutare nonna Cesonia.
"Un giorno morirai, su questo non c'è dubbio; e l'unica cosa che le persone si ricorderanno di te è quello che sarai stato per loro." Me lo aveva detto la signora Pina, e aveva ragione.

Tornando, ci fermammo da una cugina. Guardai la sua camera: improvvisamente mi sembrò simile a quella di un compagno di giochi di giovinezza di via della Serpentara. Anche lui figlio unico. Forse per questo avevamo delle camere che si somigliavano, e per questo le nostre camere erano fatte entrambe con mobili a incastro. Tutti e due avevamo una parete piena di ripiani, di scaffali, di sportelli e di armadietti. Ma lui aveva anche una vetrinetta dove teneva pupazzi e libri. Io la vetrinetta non ce l'avevo, e la mia camera aveva colori sobri marrone pastello.
Nella camera della cugina campeggiano ovunque scaffali e vetrinette come nelle nostre stanze di allora, evocando le peculiarità di quegli anni '80 vissuti nei sobborghi di Roma. Mentre vi ritrovo le cose dello stile di quei tempi, la Romania acquista ancora una volta il prepotente sapore di un favoloso viaggio nel passato.