VII - Il mondo dei contadini

Leggendo, ci siamo fatti l'idea che Duarte venga così spesso nel giardino di Ion Rațiu perché è affascinato dalle campagne. In effetti, dalle sue descrizioni il giardino sembra davvero un angolo di campagna. Angolo che riporta Duarte indietro nel tempo, alle società di sussistenza. E magari il suo desiderio sarebbe di raggiungere addirittura i tempi precedenti alla rivoluzione industriale. Perché le campagne (e come si vedrà anche le colline) abbiano questa valenza fascinosa nel cuore del nostro, è arduo a dirsi. Ma c'è un vero motivo per ogni cosa? O è semplicemente questione di sensazioni? Associazioni di emozioni del proprio passato, che sarebbe ormai impossibile ricostruire. Perciò abbiamo deciso che è inutile chiederci oltre perché Duarte ami le campagne, e di riportare semplicemente le sue note senza ulteriori commenti. Ogni lettore saprà trarre una sua spiegazione personale da queste descrizioni, e nel proprio cuore, ognuno troverà un'interpretazione diversa.
Dal diario di Duarte - 12 settembre
Alcuni anni fa visitai per la prima volta il museo contadino di Bucarest. Da allora in poi rimango affascinato da qualsiasi genere di museo contadino.
Quello di Bucarest è una specie di città all'aria aperta, più che un museo come lo si intende di solito: una città-testimone, Acropoli campagnola, Ostia Antica, Heraclea lucana o castello a Santa Severa. Tutti nelle campagne.
Io amo la campagna. Soletti fare lunghe passeggiate al di là della stazione del treno a nord della città, a Losanna. Amo il limitare delle civiltà, come Hopper. Amo i larghi spazi aperti, extra-urbani.
Un po' più a nord, costeggiai il mare della tranquillità, di un verde lunare, sotto il sole svizzero. Arrivai ad un enorme negozio di ferramenta sul pendio di una collina. Poi trovai il bosco. Al limitare, una piccola bottega vendeva bicchieri di vetro soffiato: una minuta officina all'inizio di un paese di collina. Oltrepassai quell'avamposto. Oltrepassai il tronco di un albero caduto. L'albero e il fogliame producevano un gioco di luci spettacolare: una porta della fantasia che io rimasi estasiato a guardare.
Approdo alla nazione rumena oltrepassando quell'albero caduto. È un salto dimensionale compiuto in un'aria liquida e molle, che ondeggia, come la superficie di uno specchio incantato. Come lo specchio della Regina delle Nevi.
Visitai la città-museo di Bucarest assieme a mio padre. Percorremmo in lungo e in largo i sentieri di campagna, e approdammo a un lago dove gli alberi e i tetti delle chiese, fatti solo di vecchie tegole, si riflettevano sul lago. Scatto una foto superba che riprende tutto: le case con le guglie; lo specchio del lago: la città di mare; e la città di terra.

Piena di stoffe pesanti, al suo interno, una
delle abitazioni tradizionali offre all'occhio del turista coperte trinate: una
maglia spessa come le trine di Erice. Offre tappetini colorati adagiati su panche
di legno consunto; piccoli quadri dipinti alle pareti; piccole finestre. E soffitti
bassi.
Le donne di un tempo vivevano lì come le donne delle campagne russe; delle campagne ucraine. La vita quotidiana, la vita agricola, si svolgeva sotto tetti di legno altissimi, dentro a stanzette piccole, spesse, cubiche, dal forte odore, costruite col legno delle foreste transilvane: spesso, grezzo, dall'odore intenso, come se fosse stato appena tagliato.
Gli odori, i colori, i 'sapori' dell'aria del museo contadino, si respirano uguali nella stanza da letto, nel disimpegno della casa, nella cucina contadina della nonna di una ragazza che conosco, in un paese dell'Ardeal.
Il museo contadino di Bucarest si confonde con i grandi parchi eretti nel verde delle città. A volte si confonde con il parco sportivo di Cluj: Iuliu Hațieganu. A volte con i giardini inglesi di Kew Gardens. Il lungo sentiero del muro esterno ricorda la zona incolta e selvaggia della Villa degli Ada, a Roma. Nel duemila sedici costeggiai più volte quel muro di cinta, ascoltando Deutschlandfunk, la radio che reputavo la migliore emittente tedesca. Mi preparavo a un lungo viaggio in Europa che sarebbe iniziato di lì a poco. Ricordo che mentre discendevo la scalinata che va dal Pincio a Piazza del Popolo, ascoltavo un'intervista a un rappresentante della Chiesa tedesca. Fu una lunga intervista. Passai per una breccia nel muro di cinta ancora ascoltandola; sbucai su una strada interna della città che formava un anello circolare come un crescent, nei dintorni di Piazzale delle Muse e della Moschea. Quell'anno scoprii entrate di grotte sotterranee e pozzi in mattonato nelle zone più solitarie della villa. Poi non vi tornai più.
La casa della nonna di Raluca, la ragazza che conosco, ha un tetto alto. Sicuramente uno tra i più alti che io abbia mai visto finora in Transilvania. Tetti più alti della casa stessa. La neve vi scende sopra lentamente, d'inverno. Nel '99, in viaggio su un pullman verso Breslavia, fu la prima volta che questi imponenti costrutti di tegole mi stupirono davvero, immensi com'erano. Li guardai dal pullman in corsa: attorno c'era solo campagna. Sembravano case alpine, invece erano campestri. Case al livello del mare.
Nella casa della nonna di Raluca è come entrare di nuovo nel museo contadino della capitale: tappeti alle pareti e stoffe trinate, colorate alla moda ericina; odore di legno stantio e di assi affumicate. Parrebbe abbiano appena assorbito tutto il fumo di una vecchia brace davanti al portico. Angoli scuri come quelli della casa di mia nonna. In fondo: la saletta degli ospiti. I mobili sono decorati. La vivacità delle tinte combatte la scarsa luce che riesce a penetrare nelle stanze.
Sono felice qui, ma d'un tratto sento che mi piacerebbe tornare nei luoghi assolati della Sicilia, indietro nel tempo alle distese delle saline di Trapani, sul monte Erice e giù al mare, lungo i mulini e la terra bagnata dalle maree. All'isola di Mothia. A Marsala.
A Jersey, di notte, la via per il castello di St. Elizabeth è coperta dal mare. Ma di giorno, quando la marea si abbassa, i turisti possono percorrerla a piedi, lungo la sabbia e i ciottoli d'acqua. Un pullmino anfibio li supera a volte, trasportando i più vecchi e i più grassi. Si può anche prendere il caffè sul pullmino, dipinto con sgargianti motivi colorati. Sui suoi parafanghi spuntano pinne.
Sigrid Undset scrisse dalla vecchia Oslo, la città di Kristiania, romanzi sull'epopea medievale della società norvegese vichinga. Erano poi quelle società così differenti dai musei contadini? Nella casa di Lavrans raccontata da Undset, la moglie di Lavrans scaglia il suo giavellotto contro il marito. Il marito non muoverà neanche un muscolo, perché un giavellotto lanciato da una donna non può essere considerato degno di nessuna attenzione. Neanche se va a segno. Qual era il colore dei tappeti accanto alla figlia di Lavrans, quando fu scagliato il giavellotto? Probabilmente nei villaggi vichinghi le case odoravano di legno bagnato e affumicato, esattamente come oggi.

Ivan Bunin ritrae le campagne russe nelle sue opere. La decadenza dell'aristocrazia. La vita di campagna non è forse quella più autentica tra tutte le vite dell'uomo, almeno dall'invenzione dell'agricoltura a questa parte?
Prima eravamo nomadi, come testimoniano gli artisti di strada nelle città. Ad Heidelberg un chitarrista molto bravo si esibisce in mezzo ai suoi cani. Cani e musica. Straccioni e note virtuose. Questo è il nomadismo di oggi.
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Se Duarte abbia scritto queste righe dal giardino di Raţiu, non ne abbiamo prova certa, ma lo immaginiamo.
Accade però, purtroppo, che Duarte tronchi bruscamente il racconto. Forse è stato chiamato. Sicuramente si è alzato improvvisamente dalla sedia da cui stava scrivendo: ha chiuso il quaderno in fretta, ha raccolto le sue cose, e si è avviato concitatamente verso l'uscita. Potrebbe essere possibile. Per il momento non sappiamo come avrebbe voluto concludere il filo dei suoi pensieri. Non abbiamo a disposizione brani che possano far pensare a un seguito. Conserviamo comunque la speranza che in futuro riusciremo a rinvenire il proseguimento di questa giornata particolare in cui Duarte si è abbandonato alla descrizione della sua passione per le vite dei contadini. Siamo convinti che debba esistere: che Duarte debba averlo scritto sicuramente, magari a distanza di tempo. Naturalmente, non appena ne entreremo in possesso, apporremo una postilla alla fine del libro, con una nota chiara per i lettori. Speriamo solo di non dover aspettare troppo a lungo.