VIII - Amore e fumo

Scopriremo tra poco che a Duarte piace recarsi sovente al parco Simion Bărnuțiu.
In queste digressioni a Cluj-Napoca, lontano da Turda, Duarte si comporta in effetti come fosse ancora al giardino di Raţiu: cerca panchine su cui sedersi, scrive. Cerca la tranquillità. Riconosciamo in lui un "pattern" ben preciso ovunque egli si trovi. Sapremmo come identificarlo, se lo vedessimo; se lo incontrassimo in uno di questi parchi.
Scopriamo anche, in quest'occasione, come Duarte odi il fumo delle sigarette, ciò che probabilmente lo rende ai nostri occhi un po' più intollerante di come ci fossimo aspettati.
Dopo aver vituperato il vizio del fumo, come sua consuetudine Duarte salta di palo in frasca e attacca a parlare dell'amore. Dice un po' tutto quello che gli passa per la mente, insomma. Vede un oggetto, vede una persona che passa, e subito ci racconta di cos'altro gli fa venire in mente. Sicuramente Duarte sarebbe stato tagliato per lavorare a giorni interi ai test di Rorschach, quelli sulle macchie di inchiostro e le associazioni di idee. Ce lo vediamo bene lì, al tavolino dell'analista, curioso di ogni storiella che i pazienti gli raccontano quando vedono una farfalla o una nuvola.
Ed ecco che piano piano, estratto dopo estratto del suo diario, la personalità di Duarte si delinea sempre più precisamente. Di tutte queste idee che lui mette su carta, ordinate a caso, noi ne facciamo un fascicolo e costruiamo un'identità: l'identità di Duarte. Siamo ancora appena all'inizio del viaggio: un puzzle che componiamo pezzetto per pezzetto, su un tavolo; e di cui siamo ogni volta un po' più curiosi.
Dal diario di Duarte – 20 settembre
Ho l'impressione, a volte, di vivere assorbito tra due soli: che solo l'informatica e la letteratura scandiscano la mia vita.
Appena posso, mi ritiro in solitudine nel parco centrale di Cluj. Mi ritrovo a sedermi spesso di fronte al palazzo dove si celebrano i matrimoni, anche se mi piace di più quando lo usano per le mostre di pittura. Dico "mi ritiro", ma è solo una parafrasi, perché soprattutto ora, negli ultimi giorni d'estate, il parco è gremito di famiglie, coppie, anziani giocatori di scacchi e gruppi di giovani palestrati. Passa un carretto con una bambina e una donna, e i finimenti del cavallino che la traina trillano al suono dei campanelli, che pendono giù dai drappi di cui è adornato l'animale, come una specie di carretto siciliano.
Avvicinandomi all'unica panchina libera rimasta davanti al palazzo dei matrimoni, mi sono accorto che a poca distanza erano seduti un ragazzo un po' grassoccio insieme a una bella Rossa. Ma quando ho visto lui che fumava, ho deciso di non sedermi più.
Confesso che mi dà fastidio il fumo delle sigarette: persino all'aria aperta! I sigari no, perché li ho fumati anch'io per un anno. Hanno un profumo che non mi disturba. In effetti, credo che sia più che altro una questione di principio: perché se è vero che le sigarette danneggiano la salute, dopotutto anche il fumo dei sigari lo fa. Le prime ai polmoni; il secondo alla gola. Però, in qualche modo, la sigaretta è come il simbolo della diffusione più triste del fumo: il mezzo più veloce, più rapido, per esorcizzare il nervosismo, e abbandonarsi alla facile dipendenza da droghe. Sul predellino di un treno o all'entrata di un negozio, ogni occasione è buona per fare il gesto che porta la cartina alla bocca: gesto che diventa compulsivo già appena dopo i primi giorni. E mi dispiace. Ma non solo: provo rabbia assieme al dispiacere. Rabbia per il male che il fumatore fa agli altri. Per le compagnie e gli Stati che caldeggiano i vizi: come il gioco d'azzardo, per rimpinguare le casse pubbliche e private. Dispiacere e compassione per il fumatore imprigionato nella propria irrecuperabile dipendenza. Per i deboli. Rabbia per la noncuranza e il menefreghismo del drogato: poiché esiste solo lui quando si tratta di fare quel gesto, ed egli non riesce a pensare al fastidio degli altri, perché può vedere solo la sua sofferenza. La dipendenza vince su di lui e lo condanna una volta di più, ineluttabilmente. È una scena di tristezza che mi si dipana quotidianamente sotto gli occhi. E quale infinita moltitudine di divi, da Humphrey Bogart a Ingrid Bergman, ha portato la sigaretta a status symbol dell'umanità! Quale infinita sequenza di attori ignari ci ha fatto male con questi gesti! Sigaretta simbolo di debolezza, mistero e riflessione. Insomma, simbolo di umanità perduta.
Per scrivere si ha bisogno di concentrazione. Il fastidio che la sigaretta del ragazzo grassoccio avrebbe potuto esercitare su di me (immaginario o reale che fosse stato) non me l'avrebbe concessa. Sarei rimasto a controllare ogni secondo in quale verso il ragazzo avesse risistemato la sigaretta tra le dita; se avesse considerato o no in modo accorto e altruista il contributo del vento. Ed è per evitare tutte queste assurdità che mi sono spostato su un vialetto meno trafficato, dove c'è meno passaggio. Anche se alla fine, statisticamente parlando, non fa nessuna differenza dove io sia seduto, perché il passaggio va a ondate. Perciò mi siedo, e davanti mi si erge uno degli edifici dell'università di Arte. Due sculture di ferro dall'aspetto di armigeri svizzeri stanno a guardia del portone d'entrata. Opere d'arte moderna di fronte a una facoltà d'arte: non c'è posto migliore. E la nostra civiltà si riempie di omini di ferro: quelli cubisti di Poggibonsi; quelli nei patii-giardini degli ostelli di Berlino. E quelli nel parco. Efficiente e leggero come un esploratore locale, equipaggiato con un marsupio e un piccolo zainetto, in scarpe sportive e cappellino da sole, mai stato più lontano dal somigliare a un intellettuale che scrive sulle panchine, mi sorprende all'improvviso la melodia della Rapsodia Romena. Viene dall'orologio del Comune, in lontananza. Batte le ore diciotto, ricordando al cittadino che la temperatura dell'aria si sta facendo più fredda. Un ragazzo, a braccetto con un politico, mi allunga un volantino con la pubblicità del suo partito. Una coppia simile ripete lo stesso gesto dopo solo pochi minuti, cosicché mi ritrovo in mano un sacco di carta e un giornalino di rotocalco. Ma non li butto, distratto come sono da altre cose. Non posso fare a meno di osservare la gente, le dinamiche dei corteggiamenti; la psicologia delle differenze di genere che si dipana nel parco. Quand'ero più giovane bramai e agognai confusamente le mie prime relazioni sessuali. Del fatto che ero confuso, non mi rendevo ancora conto con vera e pertinente coscienza. Desideravo solo soddisfare il naturale bisogno di sentirsi adulti, e appagare le pulsioni più naturali; e mettere a tacere, calmare, quel gigantesco bisogno dell'adolescente di sentirsi riconosciuto, accettato e capace; abile insomma. Nel coacervo dei rapporti uomo-donna che vedo nel parco, mi colpisce il ricordo di come mi sentii annaspare senza punto di orientamento, tanti anni fa.
Quando ero più giovane, una ragazza di nome Anna mi raccontò un giorno di come tentasse incessantemente di trovare uno sguardo di comprensione in tutta la gente che incrociava: bramava segni di amicizia che provenissero dagli sconosciuti. Sguardi di simpatia e basta, forse, elargiti estemporaneamente e gratuitamente. Poi, in un momento di intimità, nell'entusiasmo della condivisione, Anna mi mise a parte della sua conclusione: "Guardi negli occhi della gente e non trovi un cazzo!!" disse. Ma mio zio mi rassicurava invece, con parole diverse, che dall'imbarazzo che si prova incrociando gli sguardi della gente prima poi ci si libera. "E quasi senza accorgersene!", aggiunse, per rivelare infine, con la voce dell'esperienza, che sarebbe durato ancora qualche anno prima che l'imbarazzo passasse.
Tutti davano saggi consigli.
Un vecchio amico di nome Angelo, in un'altra occasione, m'aveva elargito altri scampoli di filosofia. Spiegò che "il primo rapporto sessuale si ha per dimostrare a sé stesso di essere uomo". Era super-intelligente. Non perché avesse detto questa frase, certo. Frase che per lui doveva essere stata sicuramente banale.
In barba a tutto questo, oggi è oggi: un mondo decisamente diverso da quello della confusione post-adolescenziale. Il retaggio di quelle visioni scorrette continua però talvolta ad affollare ancora la mia vita, e in momenti inaspettati ne prende le redini, facendomi abbandonare a interpretazioni non razionali delle cose.

Che cos'è la scelta del partner? Un processo estremamente complicato di chimica, fisica, comportamento, cultura. La sfera chimico-fisica; la sfera comportamentale-culturale. Quanto sottovalutato è il fattore chimico nei nostri discorsi! Un essenziale sconosciuto. Ma capace di portare alla più intensa felicità. È allora che ci dominano puri meccanismi biologici verso i quali è vana ogni resistenza. Più pericoloso tra tutti i fattori, è capace di obnubilare e offuscare. Al suo svanire, ci abbandona in una dura realtà. Una doccia gelata. E pensare che non è neanche quello che determina la prima scelta! Siccome il primo fulmineo processo di selezione è comandato dagli occhi, quando il cervello fa lo screening dei lineamenti estetici dei candidati, bisogna avere un po' di fortuna. Poiché non mi è chiaro quali siano i criteri profondi che il mio cervello adotta quando si imbarca in queste operazioni, vado ancora oggi in confusione. Anche se so per certo che a me piacciono i nasi aquilini, le labbra sottili, i menti prominenti; e che mi piacciono solo certi tratti somatici che ho faticosamente individuato negli anni. Non è bello ciò che è bello, ma è bello… dice il proverbio; ma nonostante questo i lineamenti simmetrici e l'assenza di difetti vengono comunque interpretati come sinonimo di salute. Elaborati così nella mente. Più sei bello insomma, più hai probabilità di dare vita a una prole sana. Ma ci sono anche i "collanti" però: quelli che garantiscono il buon prolungamento delle relazioni. Fattori culturali e comportamentali. La passione accesa un tempo si spegne, ed allora è la compatibilità dei comportamenti che ci assicura ancora una quotidianità serena.
In realtà, avevo in mente altro quando mi sono seduto su questa panchina: pensavo all'immedesimarsi in altri, al secolo lungo della modernità del compianto Daverio; alle età delle rivoluzioni di metà Ottocento; a la comédie humane Balzacchiana; alla guerra Franco Prussiana e alla spedizione dei Mille. Ma neanche di uno di questi argomenti sono riuscito a scrivere. Ho perso tempo sulle sigarette e sull'amore. E ora si è fatto buio.