XI - La V legione macedone

Sembra, a volte, che Duarte cerchi tenacemente di rimanere da solo. Che ciò che voglia sia solo lasciarsi circondare dai suoi ricordi. Una affezione nostalgica che gli viene da dentro, e di cui non si può liberare. Siffatte "catene della memoria", affezioni dopo affezioni, oggi lo librano sulle rovine di un antico castro romano, per poi fargli continuare il suo volo tra altri siti archeologici; antichi; affini. Cosa dopo cosa, sensazione dopo sensazione. Duarte è prigioniero di un gioco infinito. Dopotutto, vi sguazza felice almeno.
Il fatto per un attimo ci provoca una insensata e puerile stizza: rovine e nostalgia? Questo è dopotutto ciò che più interessa a Duarte? Così ci diciamo scrollando le spalle, invidiosi della sua capacità di inventare, di amare un mondo a metà tra inesistenti paesaggi e reali tracce di vite passate. Un mondo fiabesco che noi non avremmo mai la bravura di saper riprodurre. Ma subito riconosciamo di essere stati ingiusti nei suoi confronti, anche se con un deprecabile gesto di insofferenza.
Spesso, non neghiamolo, ci siamo chiesti cosa succeda quando Duarte termina il gioco: cosa succeda alla fine di ogni racconto insomma; la fine di ogni déjà-vu ed epifania.
Ma non troviamo risposta. Un curatore di memorie non può addentrarsi troppo nella vita del suo scrittore, anche se certo a volte vorrebbe, e nondimeno appunto quasi mai ne ha la possibilità. Come curatori delle sue memorie, quasi per incanto ci troviamo ad indugiare nelle stesse blande debolezze di Duarte, e senza rendercene conto peraltro: a volte solo per il desiderio segreto e la crepitante curiosità di immedesimarci nel nostro protetto: sia animale da baraccone o genio; ma capita che vogliamo essere lui almeno per un momento.
Ridestandoci ora da questa troppo lunga introduzione al suo prossimo racconto, abbiamo la dispiaciuta impressione di aver parlato troppo: distolto l'attenzione dal vero soggetto (chiacchierando di cosa poi, se non di un nulla solo un po' più sofisticato). Abbiamo voluto essere protagonisti anche noi per un po', a causa ancora una volta della solita invidia che ci affossa e rovina le nostre altre qualità di curatori. Senza ulteriori fronzoli perciò lasciamo che l'attenzione fluisca verso il protagonista, non nascondendo di essere arrabbiati un po' con noi stessi per la cattiva figura che facciamo con queste inutili lungaggini.
Dal diario di Duarte – 1° ottobre
Ogni giorno dedico un'ora a passeggiare. Mi dirigo all'antico Castro Romano sulla collina di Turda, mi siedo sulle rovine di pietra dell'antico accampamento, e lo guardo silenzioso come fossi seduto sui resti di Ostia Antica: quel grande e magnifico museo all'aria aperta. Grande città scomparsa e cancellata dal tempo, di cui restano solo ruderi. E là, dopotutto, è esattamente come qui. Qui si trovava una volta l'accampamento della V legione macedone.
Ottaviano creò la legione, prima dell'anno zero. La mandò a combattere ad Azio, e l'anno dopo la spedì in Macedonia. Fu da ciò che le rimase il nome. Poi la legione finì a combattere contro i Parti, e infine, solo un secolo e mezzo dopo la sua nascita, arrivò qui in Dacia, quando l'Imperatore era Traiano; e in Dacia rimase un bel po', dove un bel po' significa almeno duecento anni. Quindi si capisce perché questo campo è così ben organizzato: c'erano le terme, il pozzo, i canali, il palazzo dei Principia (cioè il quartier generale), e i bastioni, e tanto altro...

In effetti i Romani rimasero a lungo a Potaissa (così si chiamava allora l'odierna città di Turda), e nel museo della città trovo una moltitudine di reperti: monete, attrezzi, gioielli… cioè tutte quelle cose che fanno incuriosire un visitatore nei confronti delle civiltà scomparse. E i Romani, a Potaissa, avevano persino delle fabbriche.
Oggi, con le fondamenta di allora ancora visibili, Potaissa sembra esattamente come Heraclea. Forse come qualsiasi altra città di cui ci rimangono in mano, come in un pugno di sabbia, solo le fondamenta, su cui io vengo a sedermi nelle giornate di sole. Ma non disdegno neanche le basse temperature: non faccio lo schizzinoso; e sia sole o sia freddo, entrambi vanno bene e per quanto mi riguarda possono coesistere. È solo per via delle zanzare che la scelta migliore è sedersi sulle rovine quando non siamo in estate. Mentre passo il mio tempo seduto sulle pietre, mi piace pensare di essere a Ostia Antica appunto. Ostia Antica, nelle peregrinazioni erranti della mente libera e indocile, è gemella di Heraclea. Heraclea è gemella della parola vacanza, di sole, di riproposizione di ricordi. Qualsiasi ricordo, infine, è riproposizione di un ricordo più vecchio.
A Heraclea un camioncino passa ad alta velocità sulla strada del campeggio. Schiaccia i piedi a me e a mia zia e a quasi tutti gli altri che sono in fila sul margine della strada, al limitare di un fosso. Mio cugino balza come un fulmine in sella alla bicicletta mettendosi tosto all'inseguimento del camioncino. Ha intenzione di punire il furfante al volante, ma mia zia gli grida disperata: "Ale! Ale!" temendo che si metta nei guai.
A Heraclea attraversiamo un viale semi-ombreggiato da una fila di pini. Porta al mare, e le lame, fili di luce che si intessono tra gli alberi, sul terriccio del viale, sopra i rametti spezzati mescolati alla sabbia, gli conferiscono un'aria nobile, solenne, di sobria tranquillità. Quasi una specie di illusione, di accedere a un tempio sul fondo. Ma il tempio a cui si arriva è solo il mare azzurro.
A volte penso che io voglia dimenticarmi di tutto; che scelga, centellinando, ricordi schizzinosamente selezionati, per godere a tuffarmi in una melassa nostalgica. Quelle volte penso che io voglia solo rivestirmi di questa melassa, e così confondermi la mente con atto deliberato. Per stordirmi come col vino. Credo che sia il mio eterno scappare: da un presente che non è nostalgico ma che mi piacerebbe che lo fosse; un presente non può mai essere nostalgico per via della sua semplice implacabile definizione. È come se volessi raggiungere un punto di solitudine da cui guardarmi all'indietro; da cui disperarmi e addolorarmi.
Ma per cosa?
Evidentemente, per ciò che è stato lasciato indietro. Per qualsiasi cosa sia stata lasciata "indietro". Ogni volta che mi succede, mi sento una signora Ramsay dei giorni moderni, vivo sull'isola dei propri ricordi, sperando di riuscire a fare l'agognata gita al faro non appena ne avrò l'occasione. La possibilità, tuttavia, rimane solo nell'aria, come se Ramsay avesse fatto la gita solo nel sogno, e non arrivi mai all'isola del faro. E così io non vi arrivi mai, seppur vi navigo incontro da sempre. Questo accade a chi piace essere nostalgico: esattamente questo.
[Castra e Castelli:
C'erano altri Castra e Castelli, nel mondo della nostalgia: non certo solo quello di Potaissa.
Di Ferrara non avevo un "ricordo più bello", perché per me tutto v'era stato bello indistintamente: il ristorante dove facemmo un'opera di pop-art coi bicchierini di vetro; la piazza del mercato dove passeggiammo ed M. G. guardò le borse; il palazzo della Prefettura. Nel chiostro del palazzo della Prefettura mi sedetti su un muretto di pietra, e mi fu scattata una foto dal titolo "giovane ragazzo ginnasta in gita turistica, ma con qualcosa di affascinante delineato sul volto".

Poi andammo al castello col ponte levatoio, e lì seguimmo due giovani nelle segrete aperte alla visita. Erano due giovani innamorati, che scomparvero ben presto alla vista. Solo in superficie riuscimmo a ritrovarli, che si baciavano.
Il Castello di Ferrara ha tutt'intorno un fossato, e per il resto è un grande squadrone di mura, archi e mattoni. Una vecchia prigione del Cinquecento? Fortezza duecentesca come la torre di Bologna? Fortezza di collina come a Vicopisano? Cos'è il Castello? Luogo di mistero, luogo di passeggio, viaggio in una città sconosciuta? Cos'è?]
Da questi Castra saluto il mio circoscritto errare: vagabondaggio cieco eppur felice. Castra! Vi giro in tondo, vi arranco, vi indugio, dinoccolato, e mi ci ciondolo nullafacente.